Le lunghe distanze. La lunghezza della distanza, per quanto oggettivamente definita dal numero dei chilometri, è un parametro molto soggettivo il cui limite varia, parallelamente alle capacità e all’esperienza del ciclista, trasformandosi progressivamente in un confine più mentale che fisiologico.
Approcciare una lunga distanza porta con sé alcuni interrogativi: “Quanti chilometri percorrere per prepararsi?”, “Ma chi te lo fa fare?!?”. E talvolta anche l’errore di fare solo uscite lunghe ed estenuanti (col rischio di arrivare all’appuntamento svuotati di gambe e di testa).
L’approccio corretto per le lunghe distanze, sia che si tratti di una pedalata in giornata come per la “Chase the Sun” (270 km e 3000 m. di dislivello) sia che si tratti di un lunghissimo percorso a tappe come per il “GTL – Grand Tour Lombardia” (1200k x 16000D+) non può prescindere da alcune premesse.
Prime tra tutte: la scelta razionale dell’obiettivo da raggiungere in base alle proprie potenzialità ed al tempo che si ha a disposizione; un piano strutturato di preparazione fisica e mentale; la predisposizione psicologica a prestazioni di lunga durata ed una forte motivazione.
Avere un obiettivo permette di individuare e lavorare sui punti di forza (attuali e potenziali), e su quelli deboli; stimola ad impegnarsi laddove si è più carenti allontanando la tentazione (emotivamente più remunerativa) di esercitarsi in ciò in cui si è già bravi.
Se i sogni nella vita danno un po’ di “pepe” e sono di stimolo a migliorare, quelli sportivi devono avere i connotati per potersi trasformare in obiettivi accessibili: sufficientemente difficili per stimolare ma raggiungibili per evitare delusioni cocenti o sovraccarichi che il fisico non riuscirebbe gestire.
Molto utile avere dei “micro obiettivi” intermedi che permettano di fissare scadenze, monitorare i progressi, valutare l’eventualità di “aggiustare il tiro” (fare riferimento ad un dato percorso o salita; confrontare i tempi; definire a quale velocità media, con quale rapporto, entro quale scadenza ecc…).
Le lunghe distanze, si inizia da qui
Il programma di allenamento è basato sulla definizione di volume e intensità (distanza e dislivello).
Nel caso delle lunghe/lunghissime distanze il modello prestativo richiede: un’elevata capacità di eseguire sforzi prolungati (resistenza aerobica) con eventuali cambi di ritmo imposti dal percorso; un’elevata tolleranza alla fatica di tipo centrale (sistema nervoso) e periferico (muscoli); un’ottima efficienza di pedalata e una buona propensione ad utilizzare i grassi a scopo energetico.
Occorre disporre, inoltre, di buone capacità mentali di adattamento a situazioni che possono essere anche molto diverse (caldo/pioggia…); motivazione e determinazione per superare le “scomodità” implicite in una lunga distanza a tappe (mancanza di sonno/ guida notturna, fatica organica ecc…).
Un lavoro di qualità strutturato ha i presupposti per essere più redditizio di un semplice lavoro di quantità (macinare migliaia di chilometri) e comprende: lunghe uscite anche con cambi di ritmo; esercizi funzionali in palestra finalizzati al potenziamento della muscolatura degli arti inferiori, del “core” e degli arti superiori; lavori specifici per ottimizzare il gesto della pedalata.
Programmare le lunghe distanze in fasi
La programmazione si sviluppa su fasi diverse.
Si inizia con un lavoro di volume a bassa intensità (tanti chilometri senza troppo dislivello) per creare una solida base aerobica; si passa poi a una fase centrale ad intensità e volume elevati (tanti chilometri, dislivello, cambi di ritmo, ripetute ecc..) per costruire capacità specifiche e si termina con una fase di recupero (tapering) che permetta all’organismo di arrivare riposato ma abituato a sostenere carichi di lavoro prolungati.
Attraverso il lavoro in palestra si ricerca l’incremento della forza resistente generale e della forza massima mentre lavori specifici in bicicletta (interval training, agilizzazione ecc…) sono volti al miglioramento dell’efficienza neuromuscolare e dell’economia della pedalata.
Nella preparazione di un giro a tappe è di fondamentale importanza inoltre abituare l’organismo a uno sforzo protratto nel tempo; durante la fase di carico è opportuno inserire, gradualmente, due, tre, quattro o più sedute di allenamento contigue senza giorni di riposo simulando l’impegno che verrà richiesto durante la prova e abituando così l’organismo a recuperare in attività (anche sedute brevi sui rulli nel caso di impossibilità ad uscire).
In questa fase in particolare, ma anche in quella iniziale, inserire uscite a digiuno per incrementare la resistenza alla fatica reale e mentale e per stimolare l’organismo a consumare grassi.
Allenare le gambe, ma soprattutto la testa
Quando si sta in sella tutto il giorno e, addirittura, per diversi giorni, la “gamba” da sola non basta più. Serve anche la “testa”. La testa può fornire quella marcia in più che può fare la differenza.
“Avere testa” significa saper ascoltare e comprendere il proprio corpo conoscendone le potenzialità e dando retta ai suoi segnali, grandi o piccoli che siano (un dolorino al ginocchio, una frequenza cardiaca diversa dal solito).
Saper rievocare sensazioni positive, quando sono quelle negative a voler prevalere (dolori muscolari, sete, stanchezza), poiché la mente è stata allenata a farlo attraverso tecniche di imaging (che permettono di attivare le aree celebrali deputate al controllo di quel determinato movimento ) in cui si immagina se stessi mentre si pedala corredando tale immagine di sensazioni e informazioni sensitive positive (il blu del cielo, il caldo del sole, il profumo dei fiori, il sudore sul viso, il rumore delle ruote ecc…).
Significa avere consapevolezza che i pensieri positivi (“posso farcela”) o negativi (“è inutile, non ce la faccio”) possono condizionare fortemente le nostre azioni. Imparare a gestire e controllare i pensieri negativi, la fatica e il dolore: riconoscerli, ridimensionarli e contrastarli dando loro il giusto peso e mettendoli in discussione anche quando si avverte quella voce che sembra urlare: “fermati!”.
Distogliere l’attenzione dal dolore concentrandosi su altro attraverso piccoli escamotage: ripetere un breve mantra (“step by step…”) fissare la ruota di quello davanti, dividere il percorso in tanti micro segmenti, ritmare la pedalata sul respiro ecc…
Fatica e dolore devono essere valutati con lucidità per capire dove sia il limite oltre il quale si rischia di chiedere troppo al fisico incorrendo in spiacevoli situazioni di overtraining o patologie da sovraccarico.
Lasciare la razionalità e scegliere la relazione con l’ambiente
Il desiderio e il piacere di stare in sella giornate (o settimane!) intere presuppone la propensione ad “attivarsi” intesa come capacità di lasciare da parte la razionalità focalizzandosi sulla relazione con l’ambiente, sulle sensazioni propriocettive e sulle emozioni.
Si tratta di un passaggio che richiede ed e favorito da una sorta di rituale (allacciarsi il casco, gonfiare le gomme, stringere le scarpe ecc.) eseguito con la lentezza e la ritualità, appunto, di chi vuole amplificarne l’efficacia.
L’attivazione è strettamente correlata al gesto tecnico ed è tanto più immediata ed efficace quanto più il gesto è acquisito, fluido, automatizzato; la peculiare euritmia (coordinazione tra suono, ritmo e movimento) del gesto pedalato ha la potenzialità di introdurre il ciclista in una condizione di straordinaria connessione tra mente e corpo (stato di flow) dove non vi è più confine tra pensiero ed azione (massima espressione del pensiero ideo-motorio) e dove emozioni, intenzioni e sensazioni diventano automatici fino a far sentire il ciclista tutt’uno con la sua bicicletta.
Lo stato di flow è la massima espressione della passione, potente motore motivazionale, capace di portare il ciclista a superare i propri limiti, a proseguire verso il proprio obiettivo anche a costo di grandi sofferenze e senza alcuna evidente ricompensa. Il più delle volte si arriva infatti al traguardo dopo centinaia di chilometri senza premio né pubblico né ovazione (anzi a volte anche con un po’di compatimento…).
Ma da dove viene questa passione, da cosa è alimentata? In definitiva: “Chi te lo fa fare?”
Non è ciò che attende il ciclista “fuori” (motivazioni estrinseche) lo sprone a perseverare quanto piuttosto ciò che egli sente dentro (motivazioni intrinseche).
La necessità, ed il piacere, che la natura gli ha fornito di sperimentare situazioni sempre nuove che stimolino l’incremento di connessioni neuronali (perché da queste dipende la sua sopravvivenza come animale non specializzato) capaci di sviluppare al massimo il suo cervello.
Il semplice desiderio di mettere alla prova il senso della propria auto efficacia: di fare qualcosa per il piacere di farlo, per tastare la dimensione del proprio controllo sulla realtà, per sentirsi autonomo, auto determinato, competente. Indipendentemente da ricompense o approvazioni esterne.
Il bisogno quasi fisico di entrare nello stato di flow dove il tempo perde la sua dimensione e lo spazio acquisisce grandezze diverse; dove i sensi si acuiscono, il pensiero ed il movimento si fondono fintanto che non si raggiunge quella linea, immaginaria e reale, che decreta il fine e la fine dello stato di flow poiché, pur senza averne consapevolezza, è questo che si va cercando, ben oltre la semplice soddisfazione di aver portato a termine una grande prestazione.