Stavolta ho voglia di solitudine. Salto sulla bici, guadagno il Naviglio, spingo sui pedali, evado da Milano, cerco la campagna. La bici come terapia.
Neanche il tempo di superare le tre società di canottieri – San Cristoforo, Olona e Milano -, e ho già un uomo alla ruota. Maglia nera, pantaloncini neri, bici nera: un cavaliere nero. Silenzioso, discreto, riservato, anonimo, ignoto. Due solitudini non fanno una compagnia. Si perde, lo perdo, a Gaggiano. La bici come viaggio.
Mi sottraggo alla provinciale, conquisto la stradina che costeggia un canale, divide la campagna, collega le cascine. Incrocio trattori e aironi, affianco risaie e ficaie, ascolto il vento che propone, promette, profetizza l’autunno. La bici come bussola.
Il ponte è – si fa per dire – fiammingo: a dorso d’asino, a pietre di fiume, a tiro di mucche. A destra una scorciatoia, a sinistra un’allungatoia. Le braccia fremono, le gambe frullano, la fantasia decolla, i ricordi planano, anche a trenta all’ora. La bici come risorgimento se non resurrezione.
Allegria e allergia, guida e Giuda, Oss e sos: anagrammi in antitesi. Penso a un pezzo, a un libro, a un pezzo di libro, a un libro a pezzi, a Paola Pezzo, a un libro libero. La bici come immaginazione al potere, e anche, qui, come immaginazione al podere.
Mi godo la solitudine, un uomo solo al comando, comando è una parola pesante, uomo è una parola ancora più pesante, ma pedalare regala la leggerezza dell’essere, almeno finché la strada è piatta, il percorso conosciuto, il traffico zero. La bici come salvezza.
Poi passa un treno, un treno a pedali, altri corridori neri di maglia, di pantaloncini e di bici, stavolta sono io ad aggregarmi, dietro, sfruttando la scia e l’energia. Trentacinque, quaranta, quarantacinque. Sarà un semaforo a spezzarci e la città a divorarci. E la bici, adesso, è lì che mi guarda. Magari domani, tempo permettendo, un’altra botta di solitudine.
Marco Pastonesi