La bici d’inverno è uno spiraglio che si apre all’alba, quando il cielo promette luce, e la luce dichiara un paio d’ore di libertà condizionata, e la condizione è che tutto fili liscio, fraterno, alleato.
La bici d’inverno è una presenza metallica e cromata, immobile e speranzosa, riposata e fiduciosa, pronta e brillante, ma filosoficamente e meteorologicamente rassegnata ai cambiamenti di umore del capo e del tempo, che d’inverno non si sa mai.
La bici d’inverno è una lunga liturgia di preparazione, la cerimonia della vestizione, la scelta dell’itinerario, l’appello ai complici, fino alla sfida del gelo nell’aria e sulle strade, come schiaffi in faccia, come prigionia nelle gambe, ma anche come ribellione ed evasione, che poi è il senso di tanta passione rotonda.
La bici d’inverno è una sfida, e così è già una sentenza di vittoria, è una lotta, e così è già prova di coraggio, è soprattutto una voglia, e così è definitivamente un’autocertificazione di vita vivacità e vitalità, forse anche – alla lunga – un vitalizio.
La bici d’inverno è lo sci d’estate, è l’oasi nel deserto, è uno sprint dopo il surplace.
La bici d’inverno è sempre la tappa del Bondone, Giro d’Italia 1956, e sempre quella del Gavia, Giro d’Italia 1988, anche se secondo il calendario quelli erano giorni a metà fra primavera ed estate, ed è sempre ciclismo pionieristico ed eroico, come se si sfoggiasse il maglione rosso del Diavolo Rosso, come se s’indossassero i baffi spioventi come Luigi Ganna, come se si portassero a tracolla i tubolari arrotolati di Eberardo Pavesi l’Avocatt.
La bici d’inverno è un impulso, una spinta, una meta, un traguardo, uno spiraglio che pedala – a suo modo, a pensieri, a parole, a pedali – dall’alba fin dopo il tramonto. Uno spiraglio silenzioso, affettuoso, avventuroso, più magico che misterioso.
Marco Pastonesi
Leggi anche come vestirsi d’inverno