Dopo la Paris Brest Paris, ora sono qua, alla scrivania, tutto sommato vispo.
Ma settimana scorsa l’ho praticamente passata in sella ad attraversare la Francia longitudinalmente avanti e indietro, Paris Brest Paris, per 1230 chilometri.
Da domenica 21 agosto sera a giovedì 25 agosto mattina, per 83 ore e 46 minuti, sono stato un corpo unico con la mia bici e mi ricordo a macchia di leopardo quello che è successo.
La PBP (per due anni da me detta, scaramanticamente, ‘Innominabile’) nacque come gara per professionisti nel 1891, quando venne ideata da Pierre Giffard ed organizzata dal quotidiano “Auto-Vélo”. Si è svolta dal 1891 al 1951, su di una distanza totale di 1200 km.
L’ultima edizione aperta ai professionisti fu quella del 1951, in quanto “L’Équipe”, che organizzava l’evento, non trovò più concorrenti (evidentemente i ciclisti professionisti erano meno fessi di quanto si pensasse).
Da allora si svolge ogni 4 anni, previa selezione rappresentata dal completamento da parte degli aspiranti di 4 brevetti da 200, 300, 400 e 600 km nei sei mesi antecedenti.
Per parteciparvi non è necessario un quoziente intellettivo particolarmente elevato e, soprattutto durante le lunghe notti in sella, mi sono chiesto se un Q.I. sopra la media non sarebbe, in ipotesi, un fattore gravemente ostativo alla partecipazione. Le ragioni per cui, tre anni fa, mi sono messo in testa di partecipare sono molte, alcune profondamente intime e le tengo per me, altre più banalmente legate alla esigenza personale di dare, di tanto in tanto, un respiro ‘epico’ alla propria vita. Fatto sta che, soprattutto da due anni a questa parte, l’ho maturata ‘dentro’, ci ho di fatto convissuto immaginandomela come un punto di arrivo o, per certi aspetti, di partenza. La preparazione è stata lunga e impegnativa: il fatto è che, a 50 anni suonatissimi, una corsa del genere non si improvvisa. Ma, soprattutto, proprio per il valore simbolico che avevo finito con l’assegnarle, mi sono ridotto a dover ammettere a me stesso che un ‘fallimento’ avrebbe rappresentato qualcosa di più di un banale insuccesso sportivo. Non è facile da spiegare e non ci provo. (31/08/11 – 14.31)
Ma ci sono cose che si fanno per il piacere di farle, altre per dovere. Altre ancora, pochissime, direi quasi per necessità esistenziale: molti sono i viaggi che ciascuno di noi ha fatto, pochi quelli che, nel corso di una vita, rappresentano una prova di maturazione, un’esperienza che finisce col fare da spartiacque fra un prima e un dopo. Ciò che in letteratura è descritto nel ‘romanzo di formazione’, nella vita trova una sua collocazione in esperienze specifiche, determinanti, passaggi obbligati di maturazione spesso casuali, più raramente cercati come risposte a un’esigenza. Non so dire quanto mi abbia dato quest’esperienza, posso dire che è stata frutto di un’esigenza. Barbara, principalmente, ha avuto la pazienza di capirlo. Siamo arrivati, Alberto ed io, a Parigi in treno, venerdì 19 alle due del pomeriggio e ci siamo trascinati coi borsoni delle bici ed il bagaglio fino a Versailles, arrivando in albergo vagamente attoniti per il caldo e la fatica (essere bolliti ancora prima della punzonatura non sembrava particolarmente di buon auspicio). La mattina del 20 a Saint Quentin erano fissati il controllo delle bici e dei documenti e la consegna dei numeri di gara. La bici me l’ha preparata Stefano Bianchini e, ora posso dirlo, l’ha preparata ‘con sentimento’: qualcosa di più di una messa a punto. La bici ha un’anima, oltre che un corpo: quando ‘sta veramente bene’ te ne accorgi e ti rinfranchi. L’armonia fra sé e la propria bici è essenziale in una prova di questo tipo: ci deve piacere la nostra bicicletta, dobbiamo sentirne l’equilibrio dei pesi e la fluidità della meccanica, dobbiamo assorbirne la scorrevolezza, ascoltarne il fruscio. E’ insieme a lei che si ‘corre’, è il ‘suo’ rumore che ci accompagnerà notte e giorno. Si canta insieme a lei per centinaia di chilometri ed è una sintonia d’amore che, dal mio punto di vista, si deve stabilire.
Il primo impatto con l’ambiente, l’ingresso nello stadio, è stato fortissimo: un’emozione violenta.
Immaginate centinaia di persone da tutto il mondo, più gli organizzatori, gli addetti alla sicurezza, i parenti, i curiosi.
All’ingresso nello stadio si capisce bene che il proprio ‘investimento’ su questa esperienza non è stato esasperato: americani, canadesi, giapponesi, brasiliani, indiani, taiwanesi, russi, neozelandesi, filippini, europei di ogni provenienza.
Tutti lì, con una bici appresso, la maglia della propria ‘nazionale’ o i colori della propria città o regione addosso.
E’ in quel momento, quando ti rendi conto che c’è gente che viene da Montreal, Rio, Adelaide, Tokio, dal Texas, da Bombay, da San Pietroburgo, da Seattle, è in quel momento che ti accorgi di non essere l’unico ad avere ‘investito’ qualcosa di se stesso in questa incredibile follia.
Già essere qui, mi dico, ne vale la pena.
Balle: so benissimo che essere qui ne vale la pena se, entro 90 ore da domenica sera, sarò di nuovo in questo posto.
Ma al momento mi rincuoro con questa flebile bugia.
Ho la divisa della ‘nazionale italiana randonneurs’ e mi sembra di essere un corridore vero, un’illusione infantile che trasforma la coreografia in sostanza.
Ma l’illusione è un potente afrodisiaco e, dunque, sto veramente bene mentre passo il controllo bici, ritiro il mio numero, compro magliette marchiate PBP.
Questo momento, questo primo momento è, diciamolo, una figata pazzesca.
Fotografo schiene a raffica: questa la maglia del Brasile, gli Usa, il Canada, thò i bulgari, un russo, un indiano (rarissimo, vale un casino), il gruppo catalano, due taiwanesi con i bermuda, danesi come se piovesse. E Singapore, e Honk Kong.
Mi faccio fotografare con un giapponese e con la squadra indiana.
Un vero, autentico, genuinamente entusiasta ‘provinciale a New York’. Vabbè.
Paris Brest Paris Domenica 21 agosto, ore 21.00
Il pomeriggio abbiamo provato a dormire, più o meno riuscendovi. Verso le 18 ci siamo mossi alla volta di San Quentin da dove partiremo. Siamo in tre, oltre Alberto c’è Uwe, di Stoccarda, amico di Alberto e molto più giovane. Controllo paranoico della bici e del materiale da portare: penosi momenti passati con una busta di sali in mano, indeciso se portarla o meno, metto questo e tolgo quello. Controllo e ricontrollo. Cosa portare? Controllo meteo: prevista pioggia debole per qualche ora lunedì e martedì. Temperature medio alte. Decido per giacchina leggera (bravo pirla) e tolgo all’ultimo momento quella più protettiva (bravo pirla, davvero). Una volta partiti non si torna più indietro (c’è un sole bellissimo, penso, ah, come sono stato furbo a mollare il vestiario pesante, veramente una volpe). Arriviamo che stanno partendo i gruppi del pomeriggio. Qualche foto. Riempio le borracce. Vado su e giù. Non ricordo se e cosa ho mangiato. Finalmente in griglia. Sono le otto meno un quarto. Alle nove partiamo: passo col microchip legato alla caviglia la linea di partenza e mi impazzisce, in un picosecondo, il contachilometri: segna 95 all’ora. Al primo secondo di corsa il primo guasto, vacca boia. Tramesto pedalando ombroso mentre il maledetto apparecchietto sforna numeri da formula uno: secondo lui starei andando a 154 all’ora. Fantastico per uno che ha scientificamente preparato la sua corsa su controllo della velocità, tempi e chilometri pedalati. Com’è come non è, dopo qualche chilometro lo stupido aggeggio si rimette a lavorare di fino. Si fa buio. La gente ci incita (‘Bon courage’, gridano, principalmente).
Mi viene da pensare che ‘bon courage’ sia un buon modo di dare ‘morale’: è un invito a trovare in ‘te stesso’ la forza di affrontare quanto stai facendo, assai diverso dall’invitare forze esterne (come la sorte, la fortuna) ad esserti d’ausilio. Una sorta di onore al merito anticipato. E ‘bon courage’ sia, perchè in effetti ce ne vuole non poco.
Dopo 140 km c’è un primo ristoro a Mortagne au Perche, ci arriviamo abbastanza stremati perchè il percorso è un continuo su e giù, con strappi non duri (4-5%) ma frequenti, così che il ritmo si spezza: comunque mangiamo come lupi.
Alle 7 del mattino, sotto un cielo plumbeo arriviamo al primo controllo (221 km.). C’è odore di pioggia.
La notte, pedalata sostanzialmente in solitaria (non siamo riusciti a ‘restare’ agganciati a nessun treno, per colpa nostra direi: mettersi i vestiti da pioggia, togliersi i vestiti da pioggia, piscio io che pisci tu, ecc.) è tuttavia passata senza problemi.
Non è la prima volta che mi capita, ma è davvero sempre sorprendente come il tempo, di notte, scorra ‘sospeso’; si pedala quasi in automatico, tra il verso delle civette e la sagoma nera degli alberi che sfila al nostro fianco.
Albeggia e, quasi, non ti sei accorto di essere in sella da circa dieci ore. Controlli di Fougeres e Tinteniac (alle 16 – 16.30): dopo 364 km si sente una fatica ‘incombente’ che lo scorrere del tempo non aiuta a controllare, piove che dio la manda e c’è anche un po’ di vento contrario, diversamente da quanto previsto dal meteo.
Grazie alla perfetta scelta dell’abbigliamento (ho risparmiato ben due etti di vestiario) sono bagnato fino al midollo e, per stare in rima, mi prende a sinistra un forte torcicollo.
Sostiamo in una stalla, ospiti di una simpatica famiglia, in un punto indeterminato del percorso: ci sono i vitelli appena nati, del caffè e del cioccolato che ci viene offerto.
Loudeac (449 km.) è ancora lontana: ci arriveremo verso le 10 di sera dopo 25 ore sui pedali, quasi 4.000 metri di dislivello, senza aver dormito un minuto e con un tempaccio.
Rispetto alla mia ‘tabella’ siamo sotto di una cinquantina di km, ma francamente, di più non si poteva fare.
Tuttavia ci si ripromette un’andatura più ‘controllata’ con cambi regolari e senza strappi.
Pappa abbondante e branda in dormitorio. Sveglia alle 2.30.
Paris Brest Paris Martedì 23 agosto, ore 2.45
Si riparte verso Brest: si sale ma le gambe, stranamente, vanno a dovere. La notte è punteggiata dai fanalini delle bici.
C’è un silenzio totale in mezzo a queste colline che non vedo, paesi pochissimi.
Qua e là dei randonneurs di razza pura dormono appollaiati su dossi, infilati nelle prode dei fossati, avvolti come enormi caramelle nei fogli termici argentati.
Lasciano accesa la luce posteriore a segnalare la presenza e dormono, alcuni, stoicamente infilzati nel terreno come paletti improbabili. Sembra ‘l’invasione degli ultracorpi’ in chiave ciclistica.
Tormento al collo.
Ho tolto le calze che tanto fa lo stesso.
A un certo punto ci perdiamo di vista e resto solo: Alberto e Uwe sono andati avanti e mi metto ad inseguire fino al controllo dei 525 (Carhaix – Plouger).
Sono passate 35 ore.
La verità è che non riusciamo a gestire l’andatura in modo uniforme: siamo in tre e ognuno va per conto suo.
Ci si perde di nuovo: qui per colpa mia che m’incazzo per come si sta andando alla ‘viva il parroco’, parto come un treno e poi devo rallentare per un salto di catena e fermarmi per un bisogno insopprimibile.
Quando mi rimetto in sella non so più se Alberto e Uwe sono davanti o dietro.
Verso Brest li ritrovo, fermi per un cambio vestiti o altro.
Sono bagnato fradicio, stanco e in ansia: mi sembra che il tempo passi inesorabile, tanto inesorabile da poterci buttare fuori gioco per un motivo o l’altro.
Il fatto è che stiamo combinando due ‘stili’ completamente differenti: io ho in mente la ‘mia’ corsa, l’ho studiata, preparata, sezionata e interiorizzata, ‘sento’ che devo farla in un certo modo se no, poi, salto. Loro preferiscono andare a ‘stile libero’, il che, in queste condizioni abbastanza ‘estreme’ è inconciliabile con i miei programmi.
Di fatto a Brest ci si perde definitivamente ma, alla fine e nonostante tutto, arriveremo praticamente insieme, come se ci fossimo dati un appuntamento. Si è amici non per caso.
La picchiata su Brest è stata emozionante e la vista del ponte nuovo, lunghissimo e bianco mi ha buttato un tuffo al cuore.
Dopo 618 km proseguo verso Parigi ‘in solitaria’ pedalando fino alle 10 di sera, di nuovo a Loudeac (km 782).
Ma, dopo Brest, sono ormai verso Parigi: verso Parigi, mica Pavullo nel Frignano, mica.
Lungo una discesa ripida vedo in lontananza un ciclista che perde il controllo e cade.
Non si ferma nessuno e la cosa mi sorprende.
Mi fermo io: è un francese, mi ringrazia, niente di rotto. Si ritira.
Arrivo a Loudeac e non ne posso più: oggi sono stati 330 km, con molta salita e pioggia. Decido di fermarmi a riposare nel dormitorio.
Con Alberto e Uwe ci messaggiamo: loro proseguiranno ancora per una settantina di chilometri. Per me è impensabile.
Sveglia alle 2.
Paris Brest Paris Mercoledì 24 agosto ore 2.30
Bhè, c’è un momento in cui ti dici ‘vuoi vedere che ce la faccio?’ Il momento è questo: sono andato a ‘dormire’ che mi sentivo a pezzi, dolori dappertutto, umido e infreddolito.
Cacchio dopo due ore mi sento un leone: vado che è un piacere, salita e discesa nella notte buia, tranquillo, sollevato.
Vado, vado, vado.
Arrivo a Tinteniac (867 km) alle sette del mattino, non mi ricordo se ha piovuto ancora, ma questa terza notte è volata (nonostante qualche momento di franca sonnolenza ).
Tanta gente per strada, a incoraggiare, offrire da bere, da mangiare, farti coraggio: una sensazione incredibile.
I bambini tendono la mano per farsi dare il ‘cinque’ mentre passi.
Una vecchia, in cima a una salita, mi urla di fargli il ‘moulin’: scalo, passo ad un rapporto agilissimo, e le sfilo davanti roteando le gambe come ventole. E’ tutta contenta: ‘bravo’, mi dice.
Con due francesi facciamo un lungo pezzo a 40 all’ora, tirando come matti, dandoci cambi regolari, un divertimento imprevisto (poi questa volata, un po’ la pagherò, ma chissene).
Poi con una tedesca un altro pezzo. Dei danesi. Arrivo a Villaine, sono oltre quota mille.
C’è una folla che applaude dietro le transenne: vale sei anni di psicoterapia. Gli ultimi ottanta chilometri della giornata sono infiniti: Mortagne au Perche sembra non arrivare mai e, invece, alle sette di sera, arriva, eccome.
Sono 1090, ne ho fatti altri 310: ho ancora 20 ore e mi mancano 140 chilometri.
Mi dico, sono le sette, vado avanti, ma avanti non c’è da dormire. Figurati se mi addormento alle sette di sera. Figurati.
Mi faccio due birre.
Non faccio a tempo a sedermi in branda che già dormo, e sveglia all’una (o a mezzanotte?, bhò).
Giovedì 25 agosto ore 1.30
Se adesso mi si rompe la bici? E se mi viene uno strappo? E se il torcicollo mi blocca? E se mi viene un febbrone? E se ?
E se un cacchio!
Non succede una beata fava: si va, si va, si va. Controllo a Dreux alle 5.20 (e sono 1.165). Mangio mezzo quintale di patate con la crema.
Due giapponesi dormono con la testa nel piatto. E si va, ragazzi, si va che è una meraviglia: c’è salita, poi pianura (ah, la pianura, bella, piatta piatta, liscia liscia, evviva la pianura).
Di nuovo salita? Sissignore, deviazione nella foresta di non so che, so che la maledico perchè in pianura viaggio che è un piacere, ma in salita sbuffo.
…C’era un cartello giallo con una scritta nera: 15 chilometri all’arrivo.
Ho fatto i conti: salvo un cataclisma, un’onda anomala, un bombardamento, l’arrivo di un meteorite, ed anche in caso di rottura braccio sinistro, otite, rottura cambio, diarrea fulminante, matrimonio con Monica Bellucci e sua consumazione, lotta con orso polare disperso e altro io a Parigi ci arrivo comunque in tempo, anche a piedi.
Ormai sono verso Parigi, puntato come una lama, sono un endecasillabo a pedali, un robot spaziale, un megagelato, una birra, un fischio: io ormai sono verso Parigi e, per la seconda volta, dopo Brest, mi faccio una frignata piena di dignità.
Paris Brest Paris Giovedì 25 agosto ore 8.46
Evvai! Quest’uomo con la faccia sbarbata, che questa mattina si è messo anche il profumino, quest’uomo con ciclo incorporato stile centauro, questo fantasmagorico precipitato di biciclettitudine in pedalante infilata di percorsi, sono proprio io, io, io: uh, che iperdilatazione dell’ego, che autostima ciclopica. Ma chi sarà questo bravo ragazzo che sfreccia (si fa per dire) a fianco del cartello dei dieci chilometri? Chi sarà mai la bella bestiolina, il frizzante animaletto che non si arrende proprio adesso perchè non è mica completamente pirla, vuoi che si arrenda adesso?
Col cacchio.
Scusi brav’uomo italiano in bicicletta, sa dov’è Parigi? Cerrrrrto che lo so. Sta qua, proprio dietro l’angolo. Ci si mette un attimo. Vede? Io ci vado in bici a Parigi, vuoi che sia lontano? Non è lontano, cinque chilometri. Un’ i-n-e-z-i-a!
E Parigi arriva, arriva l’arrivo con il suo arco blu e la gente che dice ‘bravo’ e nessuno che dice più ‘bon courage’ perchè, in fin dei conti un po’ di courage hai dimostrato di averlo e adesso alle 8.46 del 25 agosto, dopo 83 ore e 46 minuti, cazzarola, puoi dirlo forte: andate a Parigi, gente, perchè quando ci si arriva è garantito, si gode che è una meraviglia.
Flash
Nel mezzo del nulla sentiamo strillare la chitarra di Jimi Hendrix. Un americano coi capelli lunghi e grigi sotto il casco pedala avanti a noi. Due altoparlanti attaccati al tubo dello sterzo. Lo superiamo, lo ritroveremo più avanti, superato di nuovo e di nuovo ritrovato. Lui non si ferma mai: va per la sua strada, con la sua musica e il suo ritmo.
Controllo e ristoro: un giapponese si siede avanti a me tutto compito: nel vassoio ha messo di tutto: zuppa, caffè, dolci, pomodori, carne, succhi, frutta, yogurt.
E’ semiaddormentato: pesca col cucchiaino un po’ di caffè, poi la zuppa, poi il caffè, il dolce, un pomodoro. Il più grande frullato gastronomico che abbia mai visto. Lo ritroverò a Parigi che vuole scambiare la maglia.
Un gruppo di svedesi pedala compatto. Se provi ad accodarti e a dare un cambio, rallentano: non vogliono nessuno insieme a loro. Degli autentici cazzoni. A Brest incontro uno di Verona. ‘Sono in ritardo’ dice. ‘Son stato dietro a quelli del mio gruppo, poi si è messo a piovere e si sono ritirati subito tutti’. Dei ‘mona’.
Silvano è un ciclope veneto di vent’anni. Parla a raffica. Partiamo insieme. Se ne va subito via, pestando sui pedali come una locomotiva. Gli piace dormire per terra. Quanto ci avrà messo? Più o meno di sessanta ore?
Mi do il cambio regolarmente con una signorina tedesca. Un tatuaggio per ciascun polpaccio. Andiamo avanti così per trenta chilometri. In silenzio. A Villaine una bambina bionda mi chiede il permesso di portare il mio vassoio al tavolo. Sta davanti a me, tutta impettita e orgogliosa. E’ lusingata. Non saprà mai che, tra i due, quello più lusingato sono io.
A Loudeac (andata) un gigantesco giovanotto dorme su quattro sedie, avvolto nella coperta termica. Sembra un Teddy Bear spaziale.
Mancano 65 chilometri all’arrivo. Un addetto mi indica la direzione per Parigi. Grazie, rispondo, ma io devo andare a Brest. Ride di gusto. Ah, les italiens.
Un ragazzino mi piazza in mano tre piccole prugne. Le mangio al volo. Sono dolcissime.
Alberto racconta la seguente barzelletta: ‘perchè i cinesi hanno costruito la grande muraglia?’ – ‘Per far pisciare il Gran Khan’. Ride da solo come un matto (del resto Alberto è matto). Uwe gli chiede il perchè di tanto divertimento. Alberto gli traduce la barzelletta in tedesco. Il tentativo di rendere in tedesco la relazione fra ‘grande muraglia’ e ‘Gran Khan’ resta uno sforzo epico che rimarrà negli annali.
Smette di piovere. Decido di togliermi i soprapantaloni che mi sono inventato tagliando dei pantavento da sci. Cerco astutamente di fare questa operazione restando in sella. Rimango incastrato con le gambe in croce, mentre la bici se ne frega e va. Ancora un po’ e mi ammazzo. Uwe è dietro e, per poco, non si ammazza lui dal ridere.
Con due francesi ci mettiamo a tirare alla morte. 40 e passa. Cambi regolari e scatti. Divertimento puro. Quando non ne possiamo più, uno dei due mi si avvicina, indica il mio polpaccio e dice: ‘bombardier’. Sorrido. Vacca, sono proprio contento.
Un tizio dorme in piedi, dentro un fossato (si spera vuoto). Appoggiato alla proda. La bici a fianco con la lucina rossa accesa. Un po’ lo invidio.
Uno sloveno (controllo dei 1009 km) vuole la pasta, ma senza ragù. Gesticola istericamente. ‘Tomato’, urla esasperato, ‘Tomato’. La poveretta col mestolo in mano lo guarda attonita. Mi guarda e mi chiede ‘vorrà mica il ketchup?’. Figuriamoci, dico io. Chiedo allo sloveno che è sempre più impaziente e mi fa capire a gesti che lui piuttosto del ragù ci mette la cacca sopra la pasta. Le cinque dita unite a crocchio e il movimento della mano su e giù sbloccano la situazione (‘che cazzo vuoi?’, la sintesi): il Ketchup, risponde. E’ completamente andato. Gli faccio vedere dov’è la sua salsina. Si allontana borbottando tra sé col piatto di pasta in mano. Ci mette un litro di ketchup e io prego per il suo intestino.
All’arrivo c’è quello di Como che aveva fatto la 600 km. di Castano con una bici dell’esercito svizzero (un solo rapporto e la bici pesa un quintale). Ha fatto la PBP così. Beata gioventù. Incontro anche il geniale animatore di ‘Ciclofakiro’, un sito molto popolare fra i randonneurs. Ha l’aria di uno che ha fatto due passi ai giardinetti. C’è anche il giornalista di CT. Un tipo simpatico con cui avevo scambiato quattro chiacchiere alla partenza (oggi ho preso il giornale e Alberto e io siamo ‘citati’, ne comprerò 100 copie?)
In campagna o nei paesi la gente applaude, aspettando ai bordi delle strade, fanno ciao con la mano. Incitano. Offrono da mangiare e da bere. I bambini e i ragazzi si godono quello che, per loro, è uno spettacolo, davvero partecipi. Sono centinaia punteggiati lungo il percorso, fino a notte fonda. Quando entri in città non ti caga nessuno.
Paris Brest Paris, grazie a:
Barbara (che sa perchè l’ho fatto), PietroFrancescaeCaterina (figli talvolta comprensivi), Alberto (compagno di strada e di chiacchiere), Hannibal (eterno amico di bici e di pensieri), ‘il Periti’ (che mi ha insegnato qualcosa), Mr. the President e Benedetta (per il supporto), tutti i Turbolenti (menzione commossa per l’incitamento: Maugiola, Aldo e Giulia, Elena, Nicoletta, Franz, il Chimenti, Mario e Monica, Gianni, la Clemens), Fabio, Ketty, Friz, Antonella, Giampi, Cloti, Lionello e Fabrizio (per l’incredibile partecipazione), Stefano Bianchini (che ha preparato la bici come se fossi Coppi), Uwe (l’unico tedesco ‘senza strategia’). Grazie anche alla mamma, poteva mancare? che ha riprovato senza batter ciglio il ‘gusto’ di quando stavo via tre mesi senza dare notizie.
E grazie a Lei, la mia bici, che ha fatto il suo dovere e non mi ha mollato mai.
P. (detto l’aucat in bicicletta)