Fignon-Lemond: la prima avvisaglia, il Giro del 1984
Laurent Fignon, detto ‘le Professeur’, portava degli occhiali da vista con una montatura metallica che lo facevano somigliare ad un filosofo. Aveva anche una zazzera bionda che, col passare degli anni, perse un po’ di consistenza rarefacendosi sulla fronte: il campione francese, cambiando il suo look, si pettinava a questo punto all’indietro e tenendo una lunga coda di cavallo – legata con un cordino – che fluttuava al vento (niente casco, all’epoca).
E’ stato un grande: vinse due Tour de France, un Giro d’Italia, due Milano-Sanremo. Il secondo Tour de France (1984) lo vinse conquistando tre tappe in montagna e due a cronometro. Eppure, proprio quell’anno, aveva perso il Giro d’Italia nell’ultima tappa, la cronometro di Verona in cui Francesco Moser, da poco reduce dal record dell’ora, gli aveva inflitto un pesante distacco che gli aveva consentito di recuperare il minuto e 21” di ritardo che aveva alla partenza.
Moser vinse perchè più forte a cronometro, ma anche perchè tecnologicamente all’avanguardia con una bicicletta disegnata per lui che montava le, allora avveniristiche, ruote lenticolari. Con ciò infliggendo 2’24” al rivale francese che, alla fine, polemizzò ferocemente con l’organizzazione sostenendo che l’elicottero che faceva le riprese era stato utilizzato per avvantaggiare il corridore italiano, volando alle spalle di Moser per creare un turbine d’aria a suo vantaggio e stando, al contrario, davanti a lui per ostacolarlo.
Quel che è certo è che Moser, trentatreenne, colse l’ultima occasione che gli si presentava per vincere una grande corsa a tappe e il giovane Fignon perse il duello finale anche per un gap tecnologico che, probabilmente, accentuò il distacco finale. Un Giro, quello, all’insegna di un’altalenante sequenza di sorpassi e contro-sorpassi fra i due che si spartirono le maglie rosa della corsa; con il francese che nelle due tappe di montagna precedenti la cronometro finale, aveva surclassato il suo antagonista presentandosi al via della tappa ‘definitiva’ contro il tempo con un consistente vantaggio.
Ma il suo assetto di corsa tradizionale aveva comportato un gap tecnologico decisivo rispetto a quello futuribile di Francesco Moser e questo gli costò la maglia rosa finale. Se, cinque anni dopo, Fignon avesse tenuto a mente questa prima esperienza negativa non avrebbe perduto il Tour de France per un’inezia.
Fignon- Lemond: il primo americano
Un americano (primo) a Parigi? In termini ciclistici, fino alla metà degli anni ’80 sarebbe stata considerata una boutade. Vero è che Greg Lemond, professionista affermato e campione del mondo 1983, era già salito sul podio finale della Grande Boucle per due volte, ma quando nel 1986 vinse la classifica finale davanti a Bernard Hinault, realizzò un’impresa per certi versi anche culturale: fu, infatti, il primo ciclista non europeo a vincere una delle tre grandi corsa a tappe.
Un americano trionfante in maglia gialla e davanti a un francese: concettualmente una stilettata per i cuori transalpini, notoriamente piuttosto portati a battere orgogliosamente.
La qual cosa, per inciso, rischiò di restare unica per quanto riguardava il fortissimo yankee perchè l’anno successivo, durante una battuta di caccia al tacchino selvatico (mia nonna sosteneva, del tutto a ragione, che i tacchini sono pericolosi) il poveretto era stato investito da una rosa di 50 pallini sparati a capocchia dal cognato. Morale: gli restò in corpo non più di un litro di sangue e ci mise due anni a risalire in sella.
Fignon-Lemond: 1989 la seconda rivoluzione
Lemond si presenta al Tour, edizione 1989, in una veste dimessa: non ha una grande squadra e la qualità del suo recupero non è ancora perfettamente chiara tanto che sia nel 1987 che nel 1988 non ha ‘battuto chiodo’.
Fignon, invece, è una ‘palla da schioppo’ (lo so, visto l’incidente di caccia subito dal suo avversario, avrei potuto usare un’altra metafora, ma diventando più vecchio mi si è impoverito il lessico): nel 1989 alla partenza del Tour, tanto per dire, ha già vinto la Milano-Sanremo e il Giro d’Italia oltre che il Grand Prix des Nations a cronometro. La qual cosa sottolineo perchè dimostra quanto fosse forte in questa specialità in cui, peraltro, anche l’americano era sempre stato protagonista, tanto che il 6 luglio, nella quinta tappa (una cronometro alla ‘francese’, di 73 km), a sorpresa, era riuscito a conquistare la maglia gialla. Che tenne per cinque giorni: perchè, poi, Fignon gliela soffiò una prima volta. Fino alla cronometro di Gap, 15ma tappa: LeMond di nuovo in giallo.
Fino all’Alpe d’Huez, tappa n. 17: quando Fignon riprende la testa della classifica generale in una sorta di gigantesco ‘cicca-cicca-bomba‘ ciclistico. Si noti, Fignon resterà in giallo fino all’ultima tappa, la ventunesima, con LeMond all’attacco che vince la tappa n. 19 battendo proprio in volata il francese.
Il 23 luglio, con partenza da Versailles, è in programma l’ultima frazione, una cronometro classica, sostanzialmente pianeggiante e non lunghissima, 24,5 km.
Il distacco dell’americano in classifica è di 50 secondi che, se si tiene conto delle qualità di Fignon a cronometro, è abbastanza una enormità; basti pensare che nella quinta tappa, la mega-cronometro da 73 km, il distacco finale fra il vincitore LeMond e Fignon fu di soli 56 secondi; impensabile una impresa che consentisse un medesimo distacco su un terzo della lunghezza.
Il retroscena tecnologico
Lo abbiamo visto prima. Nel 1984 Fignon aveva perso il Giro d’Italia anche in ragione della variabile tecnologica (la ruota ‘lenticolare’) adottata da Francesco Moser. Nella precedente cronometro LeMond aveva utilizzato le prolunghe da triathlon, una novità per l’epoca: infatti, la mattina della quinta tappa (la megacronometro da 73 km), praticamente all’alba, il direttore sportivo della squadra di LeMond, Josè De Cauwer aveva avuto un colpo di genio.
De Cauwer era stato un ciclista professionista di medio calibro e, come spesso capita, da questa sua ‘mediocrità’ aveva tratto ispirazione per imparare l’arte di gestire gli altri diventando un ottimo direttore sportivo e un grande allenatore della nazionale belga (dal ’97 al 2005). Fatto sta che la regola UCI di allora prevedeva che il manubrio fosse un pezzo unico e, pertanto, non era chiaro se le prolunghe aerodinamiche, che LeMond aveva provato qualche mese prima ottenendo risultati notevoli, sarebbero state accettate in corsa. Il formidabile stratega belga, quindi, bussa alla porta della stanza del capo della giuria del Tour, il notoriamente burbero Claude Jacquat.
Scusandosi per l’ora, De Cauwer disse all’inviperito Giudice che voleva solo verificare non ci fossero problemi con la bici dell’americano. “Dobbiamo mettere queste cose davanti, perchè LeMond ha il mal di schiena”, mentì il fetentone. Non avendo la più pallida idea di quale vantaggio potessero dare le barre anteriori, Jacquat liquidò l’interlocutore dicendogli che la bici andava bene e che lo lasciasse in pace.
Si narra che il direttore sportivo lasciò la stanza del turlupinato Giudice di corsa fischiettando felice. Non a caso, come abbiamo visto, LeMond vinse poi la quinta tappa con quelle ‘cose nuove‘ che lo facevano pedalare nella posizione di uno sciatore in discesa libera.
Per un pelo Laurent perse la tappa
Ovviamente, all’ultima tappa, la cronometro decisiva, LeMond si presentò con le prolunghe aerodinamiche (ormai, e de facto, ammesse in corsa) e un casco ogivale di nuova concezione. Fignon, al contrario, partì addirittura senza casco, capelli al vento (coda di cavallo inclusa), tipo Cavaliere della Tavola Rotonda. Gli piaceva così.
C’è chi ha descritto l’impietoso confronto “siluro vs. scompigliato”: mi sembra una bella sintesi. Ciclisticamente parlando, in effetti, era uno scontro tra il medioevale Lancillotto e il futuribile Robocop.
Vedere i video dell’epoca è emozionante: LeMond, manubrio basso, ruota lenticolare posteriore, prolunghe e casco aerodinamico; Fignon manubrio tradizionale, due ruote lenticolari e chioma al vento.
Già dalla partenza si capisce come andrà a finire, con l’americano che fila composto e il francese che si muove all’antica con il codino ben teso all’indietro a zavorrarlo. Eh, sì, direte voi: quanto può avere influito la zavorra pelosa?
Cominciamo col dire che, a parità di potenza, si è calcolato che la posizione maggiormente aerodinamica aveva avvantaggiato LeMond di circa un minuto.
Ma Fignon non aveva a disposizione le barre. Avrebbe perso comunque? Niente affatto, se fosse stato meno vanitoso. Gli esperti, al tempo, ebbero a calcolare sadicamente quanta influenza aveva avuto il vezzo dei capelli al vento: 16 secondi.
Il Tour de France venne vinto dall’americano per l’incredibile inezia di 8 secondi.
Se Fignon si fosse tagliato i capelli (come gli aveva suggerito la mamma) o si fosse messo il casco avrebbe trionfato al Tour per la terza volta. Una sorta di Sansone al contrario.
Fignon-Lemond: otto secondi, dopo circa 3.300 km! Fignon era talmente disperato all’arrivo che si accasciò a terra in una crisi di sconforto. Nella sua autobiografia (“Eravamo giovani e incoscienti”) scriverà con orgoglio: ‘Ah, I remember you: you’re the guy who lost the Tour de France by eight seconds!’ ‘No monsieur, I’m the guy who won the Tour twice”. Morirà giovane, a soli 50 anni.
Le grandi sconfitta, a cura di Paolo Turbolento Della Sala, tutto inizia da Gimondi e il Cannibale